Non c’è migliore preparazione al Natale per chi proviene da una famiglia altamente disfunzionale –e gode della scomoda grazia di rendersene conto- del film di Xavier Dolan, “E’ solo la fine del mondo”, tratto da una piece di Jean Luc Lagarce, brillante drammaturgo morto di aids nel 1995. Avendo voglia di approfondire il senso di quanta morte vi sia nell’apparente vita e viceversa, il giovane autore che torna dopo dodici anni a incontrare la sua famiglia, per annunciare loro la sua morte, è la più disagevole e impeccabile guida nel territorio del diavolo di alcuni legami familiari, la loro scomodità e la loro violenza. Una madre totalmente narcisista, con improvvisi scoppi d’inopportuna tenerezza, una sorella instabile, un fratello collerico fin quasi alla schizofrenia, capace di utilizzare ogni minimo, irrilevante pretesto per far scoppiare la lite e accentrare ogni attenzione su di sé -pur di non guardarsi dentro nemmeno per accenni- una succube ma sensibilissima cognata -l’unica a percepire silenziosamente la portata e i contenuti di quella insolita visita- sono l’arena del viaggio di ritorno, a dir poco odisseico, del trentaquattrenne Louis, talentuoso drammaturgo gay, depositario di una –finora inconfessata- vita al termine della sua breve e scintillante notte. La totale assenza di percezione emotiva dell’altro, le deduzioni proiettive e fuori luogo sulla vita concreta del giovane uomo -al quale nessuno domanda mai per esempio nulla di “normale”, tipo a cosa stia lavorando o se sia solo- la frettolosa notizia di una morte a lui cara data con noncuranza, rendono chiarissime le ragioni della sua fuga precoce, come i confini della camera iperbarica nella quale è probabilmente nata la sua raffinata capacità di scrittore –che ben riconosce come salvifico rifugio chi è scampato a contesti patologici, anche se non sanzionati ufficialmente dalla psichiatria. Un film duro come una sassata in viso, eppure straziante e dolcissimo. Onnipresente il tema della sigaretta accesa che, come è noto sa occludere qualsiasi emergenza emozionale, impeccabile ogni inquadratura, elegantissime le musiche, ogni primo piano del protagonista Gaspard Ulliel vale un film a sé stante, perfette le incarnazioni dei caratteri, magistrale ogni dialogo -nel suo martellante claustrofobico autismo- desolante il senso di isolamento e solitudine dell’eroe, che pure, brilla su ogni deludente familiare per compassione e generosità. Ludwing Wittgenstein suggeriva–lapalissianamente?- che su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere e questo decide Louis di fare, anzi di non agire, nella rinnovata coscienza dell’inutilità di ogni confronto con la sua culla originaria. Anzi, la sua sensibilità profonda e matura è la componente segreta che lo aiuta, attraverso il succedersi di ripetuti inutili incomprensibili drammi, probabile richiamo di tutta la sua infanzia, a tornare via ancora una volta, con un estremo atto di pietas per se stesso e per gli altri, mentendo a tutti sulla sua buona volontà di riconciliazione. Una lacrima di dolcezza su un terreno gelato e crudele, cieco oltre ogni ammissibilità, spesso così desolantemente riconoscibile a chi sceglie di fare i conti con se stesso e diventare protagonista fino in fondo, bannando ogni vittimismo, armato solo di un’invincibile e coraggiosa sincerità di cuore. L’autenticità prima ancora della vita stessa.